Recensione del film Revenant – Redivivo
Film ispirato alla vera storia del cacciatore di pelli Hugh Glass, vissuto all’inizio dell’800 (il film è basato sull’omonimo romanzo di Michael Punke).
Glass, insieme a suo figlio Hawk -avuto da una indiana Pawnee morta durante un attacco da parte dei soldati al loro villaggio – fa da guida per una spedizione di caccia ad una pattuglia di soldati americani. Il numeroso gruppo viene però decimato da un feroce attacco indiano (i Ree), così che i reduci devono abbandonare le pelli e cercare di raggiungere il fortino a piedi, attraversando le nevi del Nord Dakota. Mentre Glass cerca di tracciare un percorso per il ritorno viene attaccato da un orso grizzly che lo riduce in fin di vita. Il capitano della spedizione in un primo tempo vuole mettere fine alle sofferenze del povero Glass, ma accetta le suppliche del figlio Hawk, e acconsente di lasciarlo alle sue cure e a quelle di altri due compagni. Purtroppo con Glass e il figlio rimane pure Fitzgerald, un soldato di ventura senza troppi scrupoli, che non vede di buon occhio il “meticcio” indiano, e che si aggrega a loro solo per poter rimediare la ricompensa che il capitano ha offerto in cambio di una degna sepoltura a Glass, una volta che la inevitabile morte giungerà.
Questo è ciò che accade nella prima intensa mezz’ora del film, che in tutto dura più di 2 ore e mezzo . Basterebbero solo questi 35 minuti per rendere il film eccezionale, inverosimilmente il film procede su questo livello per tutta la sua durata, senza mai perdere il ritmo, non lasciando che la tensione cali.
La vera vicenda infatti prende inizio proprio dall’abbandono di Glass da parte dei suoi compagni, che non si fanno scrupoli a lasciarlo moribondo mezzo sepolto in una fossa, alla mercé degli indiani Ree (non dirò cosa accade al figlio Hawk). Le 2 ore successive sono dedicate alla rinascita spirituale e fisica di Glass, che come il famoso conte di Montecristo, è mantenuto in vita dalla sete di vendetta. Abituato alla dura vita da cacciatore, si fa forza di tutte le sue conoscenze per poter sopravvivere alle intemperie che il Nord Dakota offre nel rigido inverno. Seguito costantemente dagli indiani Ree -che a loro volta cercano Fitzgerld per un vecchio conto da saldare -, Glass procede per gironi danteschi, affrontando di volta in volta le avversità naturali e gli incontri più o meno fortunati, fino ad arrivare finalmente al fortino e trovare così giustizia. Se il finale può apparire scontato con il duello tra Fitzgerald e Glass, si rimane ancora una volta piacevolmente stupiti. Niente in questo bellissimo film è scontato e banale, anche se la storia può apparire tale sulla carta (solo perché già vista in tanti altri film analoghi). Un western d’altri tempi che ha una sua personalità e ricercatezza ben distinta. La battaglia iniziale tra i soldati cacciatori di pelli e gli indiani Ree basterebbe a rendere questo film ottimo per i soli primi 10 minuti, che fanno sobbalzare lo spettatore da un cavallo in fuga ad un indiano colpito, per sentire i colpi sulla pelle e cercare la salvezza sul battello. Da subito si entra in campo con i protagonisti e si muore e sopravvive con loro. Basterebbe questa meravigliosa sequenza per sentirsi soddisfatti…ma dopo soli altri 10 minuti arriva l’attacco da parte dell’orso, e qui è tutto al limite dell’esaltazione, tanto che sono andata a verificare subito dopo la visione del film come (caspiterina) sia stato possibile girare una scena simile. Svelo subito (tanto ve lo chiederete una volta visto) che l’orso non è vero, ma frutto di una meravigliosa tecnologia digitale – “Computer Genrated Imagery” – che permette di sfruttare la computeristica grafica per realizzare immagini con gli animali. Una scena che rimane impressa nella mente e che personalmente mi ha colpito tantissimo per la durata e per la forte intensità espressiva e attoriale da parte di Leonardo Di Caprio.
Il bello di questo film è che non cala mai, e continua sempre mantenendo il livello di tensione altissimo. Un film sulla ricerca di sé stessi, sulla natura dell’uomo e di quanto di animalesco ci sia in lui in circostanze estreme. Un film sulla vendetta e il sapore amaro che lascia una volta assaggiata. Un film che mostra gli uomini nella loro essenza: selvaggi (“siamo tutti selvaggi” si leggerà sul cartello lasciato penzolare su un indiano impiccato ad un albero) e “civili” si mescolano dando vita ad un nuovo genere più pericoloso perché frustrato e insicuro in una natura che per i primi non è più solo la loro, per i secondi è ancora tutta da scoprire e da dominare.
Un film di avventura che finalmente è di avventura, dove c’è il sapore della ricerca e della scoperta della storia, anche nelle parti che appaiono più ovvie.
In tutto questo brilla (davvero brilla) Leonardo Di Caprio, che da anni si mette alla prova cercando la sua parte, il suo ruolo con registi famosi e affermati…ebbene qui l’ha finalmente trovata. Hugh Glass è il ruolo della vita di Leonardo Di Caprio, personalmente non riuscirei ad immaginarmi altro attore interprete di questo personaggio così complesso e difficile. Personaggio che ho scoperto essere negli Stati Uniti una vera leggenda. Di Caprio è quasi irriconoscibile (se non fosse per gli inconfondibili occhi celesti) dietro ad una barba lasciata crescere incolta per molti mesi per renderla più verosimile. Impaurito ma mai arrendevole, ispirato dall’obiettivo della vendetta, non trova pace e rassegnazione fino a quando non compirà l’ultimo gesto liberatorio.
Regia impeccabile alla ricerca della perfezione. Ogni particolare non è lasciato al caso: per girare una scena in una gola tra due vallate, sono stati impiegati giorni e giorni, per via della luce che in quel determinato punto era presente solo per 20/30 minuti. Questo per comprendere il livello di professionalità presente in questo film.
Curiosità:
Molto si è chiacchierato nei mesi scorsi sulla scena della lotta con l’orso. Di Caprio durante una intervista aveva dichiarato:”Si riesce a sentire l’intimità di entrambi, l’uomo e la bestia. Senti il sudore e il calore venire dall’animale”.
“È come se risvegliasse qualcosa in voi, come un animale voyeuristico che guarda qualcosa che non dovrebbe guardare”. Queste frasi hanno dato il via ad un chiacchiericcio mediatico che insinuava che nella scena della lotta ci fosse un atto di stupro da parte dell’orso su Di Caprio. Ovviamente così non è (per fortuna nostra e di Di Caprio).
Inarritu occupa un immaginario già strapieno di sé, impone allo spettatore un reset completo di tutti i 120 anni di storia audio-visiva ed erige in sua vece non altro che una tabula rasa innalzando al posto della meraviglia il vuoto spinto di una spoglia imago stantia ad emblema di un cinema che non-è. Lubezki alla MdP è l’unico ad uscirne vivo.


Emmanuel Lubezki è un dio, e Alejandro González Iñárritu è uno dei suoi profeti minori.
Grevity, ovvero ( il Conte di Monte…Criiistooo! Un orso! ) : Iñárritu non sa danzare
( a proposito di empatia, giroscopi, grandangolari a focale fissa, ritorni e mamme orsa ( e maschi alpha ) : no, Iñárritu non è Kevin Costner che allarga le braccia e sfida il destino galoppando innanzi alle fila nemiche in “Dance with Wolves”, non è Michael Mann in bilico sullo strapiombo a precipizio tra la retorica e l’estatica di “the Last of the Mohicans”, non è Werner Herzog che recupera dalla carneficina l’incontro con una volpe artica in “Grizzly Man” ( tralasciamo per carità di patria/matria cinefila ogni accostamento improprio o paragone spurio col fulcro narrativo e morale del capolavoro herzoghiano : l’audio registrazione della videocamera rimasta accesa e ”recordante” ad obbiettivo coperto mentre la più pura manifestazione della fiera natura indifferente e “crudele” banchetta che il regista, ascoltatala, fa sentire non allo spettatore ma solo all’amica di Timothy Treadwell ), non è Terrence Malick che avvista le prime navi straniere sulla costa atlantica in “the New World”, non è Alfonso Cuarón che gira – assieme allo Jerzy Skolimowski di “Essential Killing” – la matrice da cui “the Revenant” deriva e di cui ne è lo stampo fedele : “Gravity”, e ancor prima la scena all’inteno/esterno dell’abitacolo dell’automobile sotto attacco in “Children of Men”. E non è certo Ethan Edwards che, dati il motore-ciak-azione di John Ford, spara a quanti più bisonti può per non lasciarne nemmeno uno che non sia putrefatto agli amerindi ( tra l’altro, le brevi scene nella neve di “the Searchers” sono più potenti, selvagge e performanti dell’intera pellicola ingolfata, pesante e tronfia di Iñárritu, che certo pur contiene accenni lirici e poetici notevoli : veri e propri quadri…lubezkiani ). Il paragone immediato si genera col modesto “BackCountry” : l’attacco dell’orso [ in entrambi i casi/film in posa sodomitica ( con o senza strap-on ) sopra alla preda, ma semplicemente perché è così che accade, spesso e volentieri, quando accade : ovvio, è -quasi- tutto nell’occhio umano di chi guarda ] e la scoperta di un paesaggio inaspettato dopo una breve salita : l’aggressione ursina in CGI di “the Revenant” [ Ursus arctos ( orso bruno ) horribilis ( grizzly ) ] ha la ”stessa” forza di quella prodotta dalla commistione che si viene a creare utilizzando l’artigianale ( e a tratti ridicolmente inserita nell’azione ) finta testa ursina [ Ursus americanus sp. ( orso nero o baribal, sp. ) ], il pregevole lavoro di make-up gore sulla vittima e il fuori campo ( questo si, invece, ottimamente gestito ) nel film di Adam MacDonald, mentre la scena di caccia del branco di lupi verso la mandria di bisonti ha una resa eccezionale che scavalca senza sforzo la sorpesa dell’essersi persi nel film con Missy Peregrym. Altro parallelo plantigrado, ma qui ovviamente tutto a favore di “the Revenant”, è con la story-line di Elam, il Bear Man di “Hell on Wheels” ) :
l’étoile Lubezki è perfetta ( e ciò vale anche per il capo architetto scenografico Jack Fisk , altromalickiano d.o.c. ), difetta Iñárritu che non sa condurre la danza, e difetta la sua coreografia [ nella quale persino le musiche di Ryuichi Sakamoto e Alva Noto ( e Bryce Dessner ) ”scompaiono”, e in questo caso non è un pregio : posso essere abbastanza convinto del fatto che l’OST album funzioni molto meglio se preso a sé ], dove ogni morto, così come ogni albero, cade al posto giusto, e non importa ad alcuno il rumore ( fracasso ovattato o urla disumane ) che fa.


Iñárritu s’innalza su di un immaginario pre-esistente, lo riproduce, ce lo racconta di nuovo, si fa scudo di questo retroterra narrativo-cinematografico e lo sfrutta per tentare di sconvolgerci e catapultarci dentro ad una Storia che non c’è : non c’è perché mancano i personaggi
-{ Skolimowski andava ben oltre in “Essential Killing” ( living-surviving) : là dove Iñárritu c’inonda di flash-back flou [ lo stesso errore/compromesso commesso da John Hillcoat nel tentativo di dare al “the Road” di Cormac McCarthy una vita ”altra” da ciò che è : un videogioco (arte) di sopravvivenza, e un capolavoro ], Skolimowski ( e Vincent Gallo ) raschiavano via dalla pelle del loro protagonista ogni contatto col proprio retroterra }-
e nulla di nuovo ed originale ( non che sia una condizione imprescindibile per fare arte e/o intrattenimento, anzi ) c’è, in questo film, che per lunghi tratti risulta profondamente ridicolo, e a cui non si crede nemmeno per un attimo. In altri momenti, invece, ”per forza di cose”, emoziona ( l’attacco indigeno iniziale, in medias res, l’attacco dell’orso, il salto nel vuoto con appaloosa, l’arrampicata con scena di caccia animale, il duello finale ) : la CGI ben utilizzata immersa in un paesaggio-set del tutto naturale e selvaggio, Lubezki–Fisk, lo scalpo risistemato alla bell’e meglio diTom Hardy, lo sguardo diretto in cinepresa di Leonardo DiCaprio : ottime prove ( ma ”nella media” per un film d’Autore di questo genere ) quelle dei due attori protagonisti, diretti con poderosa spenta professionalità, e altrettanto – contestualizzandone e facendo le giuste proporzioni in merito all’energia spesa – quella dei ”comprimari”. Ma sono solo ombre cinesi quelle disegnate da Iñárritusfruttando le braci del fuoco dell’arte narrativa lasciate accese dai precedenti occupanti la caverna-set-sala di montaggio-teatro cinematografico.


Se esiste un bravo regista più pesante, pregno, ingolfato e bolso di Iñárritu quello è Nolan ( eAronofsky ) : il loro è un Cinema-Sorrentino ( inteso come il buon regista e non come lo splendido frutto peninsular-promontoriale della tettonica a zolle-placche campana ).
Mi spiace doverlo scrivere – ma non ne sono affatto sorpreso –, ma “the Revenant” assomiglia più a “the Gladiator” che ad “Essential Killing” : non basta un Lubezki che oramai gira un film all’anno ( e per un direttore della fotografia vuol dire essere un Autore ) a spremere da Iñárritu il Racconto : “the Revenant” è un film ridleyscottiano ( ”bello”, a tratti appassionante ed avvincente, ma tronfio e gonfio e percolante senso ), e purtroppo nulla a che vedere con “the Duellists” e molto con “Noah”.
A Malick basta un intercedere della MdP per creare ”poesia”, a Skolimowski una mangiatoia per cervi ( e Vincent Gallo che saluta Emmanuelle Seigner come Redmond Barry salutava la contadina tedesca ), a Cuarón il cortocircuito esiziale e rigenerante dell’utilizzare due Divi che sono Attori invece di due attori che sono performer.
Aridatece sandrina e georgino nostri ( almeno il rientro in abitacolo di Clooney era un sogno diBullock, qui è ”tutto vero” ).

Iñárritu non rinuncia alle pastoie cristian(ich)e e là dove Tarantino col suo “the Hateful Eight” ( ch’è ambientato ¾ di secolo dopo ) utilizza il Cristo come residu(at)o di un mondo in fieri, esterno a qualsiasi valore umano che non sia antropologico, il regista messicano lo inserisce nel costrutto onirico del protagonista dipingendone sfumati i contorni tanto da renderlo ambiguo ( il tutto è legato alla religiosità della moglie, ponte tra la colonizzatrice cristianità occupante e il pagano politeismo indigeno ).
Quant’è più onesto il Mel Gibson di the Passion/Apocalypto ( con altrettanta pesantezza ma più grezza e con più grip e quindi più facilmente trasportabile ), allora ? No, non lo è, era per dire.
“ La cultura è come un testo che l’antropologo si sforza di leggere sopra le spalle di quelli a cui appartiene di diritto. ” – Clifford Geertz
L’unico momento realmente ( non che sia una necessità : ma allora ci si chiede cosa diamine davvero volesse essere questo film ) ma involontariamente etnografico dell’intero film d’avventura ( che non rilascia empatia, e quindi disinnesca l’avventura stessa ) risiede in quell’ammiccamento che l’amerinda di etnia Ree ( o Arikara. Mentre i Pawnee sono più pacifici, e i Sioux battagliano più a nord : ma intanto, sono tutti uguali, no? ) riserva all’eroe : un tic? Un autentico segnale-gesto d’intesa rilasciato attraverso un codice infra-culturale condiviso dialogicamente o ritrovatosi e riconosciutosi innato? Un bruscolino nei miei occhi? Un bruscolino-fotone che si sdoppia e colpisce entrambe le cornee? Una cosa che vedo solo io? Un granello di cultura condivisa in un campo-controcampo.
Ora sarebbe doveroso aprire un intero capitolo della grande branca scientifica che porta il nome di etnografia, ma se non ne aveva voglia Inarritu, il suo film certo non mi spinge ad indagare né in quella né in alcun’altra direzione. Bisognerebbe interpretare un avvenimento che non si sa quanto esplicito esso sia, fatto salvo il fatto che Hugh Glass ( qui di seguito un buon riassunto-ritratto della sua storia e della sua vita, tratto da un sito ”amatoriale”, FarWest.it ) è stato lasciato vivere ( senza essere aiutato : non è stato (non) aiutato a non morire ).
O magari (ri)vedersi “Man in the Wilderness” di Richard C. Sarafian.
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Addenda iconografica.
1. il Corpo Umano.

Matthias Grünenwald – Altare di Issenheim – 1512-1516 ( prima faccia : tavola della crocifissione )

Quentin Tarantino – the Hateful Eight

Alejandro González Iñárritu – the Revenant

Alejandro González Iñárritu – the Revenant
2. il Corpo Animale ( belly sleeping bag ).

Irvin Kershner – the Empire Strikes Back ( Tauntaun )

Alejandro González Iñárritu – the Revenant ( Appaloosa )
3. Blaaah.

Quentin Tarantino – the Hateful Eight

Alejandro González Iñárritu – the Revenant
Revenant – Redivivo (2016)
DRAMMATICO – DURATA 151′ – USA
Agli inizi del XIX secolo, Hugh Glass, un cacciatore di pellicce, viene attaccato da un orso durante una battuta di caccia. I suoi compagni lo abbandonano al suo destino, convinti che non possa sopravvivere. Salvatosi dall’incidente, Hugh elaborerà un piano di vendetta nei confronti di coloro che lo hanno tradito…
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