Vincenzo è un imprenditore pugliese che ha raggiunto il successo a Milano. Sua moglie è morta da qualche anno e i tre figli sono cresciuti nella sua assenza, ma anche in quella bambagia di cui i soldi di papà (e il suo senso di colpa) li ha circondati. Matteo, il primogenito, tracima idee “da un milione di dollari” e progetti “innovativi” insensati; Chiara frequenta locali alla moda e si intrattiene con Loris, detto da Vincenzo “il coglione”, PR di ristoranti trendy e reinventore della Milano da bere; Andrea è iscritto a filosofia e in due anni non ha dato nemmeno un esame, ma in compenso si è portato a letto metà della facoltà over 50. Vincenzo decide allora di inscenare il fallimento della sua ditta per costringere i figli a rimboccarsi le maniche e provare un’esperienza nuova: lavorare per vivere. Non solo, si trasferisce con loro in Puglia, nella casa fatiscente dei suoi defunti genitori, allontanando i ragazzi dalle comodità della Milano vicina all’Europa.
Belli di papà ha una premessa comica potente, una sceneggiatura (del regista Guido Chiesa e di Giovanni Bognetti) ricca di battute gustose, ed è ben servito da un cast azzeccato che può contare sul peso massimo Diego Abatantuono nel ruolo di Vincenzo e sui pesi leggeri (ma non inconsistenti) Andrea Pisani, Matilde Gioli e Francesco Di Raimondo in quelli dei figli. Ciò che difetta al film, purtroppo, è la regia: le inquadrature sono convenzionali, i tagli di montaggio eccessivi e zeppi di errori di continuità, gli scambi di battute non vengono mai interrotti “in levare”, col risultato che l’effetto comico “collassa”. Per citare il film stesso, è una regia curiosamente “inerte”, che invece di sostenerla sminuisce tutta la comicità insita nella sceneggiatura.
Ciò che manca è il ritmo, ahimé l’elemento essenziale di ogni buona commedia: un ritmo che i singoli interpreti (soprattutto Abatantuono, Gioli e un inedito Francesco Facchinetti) possiedono istintivamente e cercano di amministrare nello spazio loro assegnato. Ma è uno spazio dilatato in cui gli attori si perdono, vanificando il loro impegno e talento. C’è anche, in Belli di papà, una componente sgradevole che non ha nulla a che spartire con la cattiveria esilarante della commedia classica all’italiana, e molto con il disagio del regista nel sentirsi un pesce fuor d’acqua davanti a un testo che non solo non origina con lui ma che è il remake di una commedia messicana, Nosotros los nobles. Di qui le battute sessiste, il termine “pezzente” usato ripetutamente, i vaffanculo, gli sputi nei piatti, la cena famigliare filmata come uno spot del Mulino Bianco. Nulla di tutto questo fa parte dello stile o del talento di Guido Chiesa, la cui cifra comica è semmai quella di Lavorare con lentezza: sbullonata, anarchica e deliziosamente retrò.
Belli di papà segna il ritorno sul grande schermo di Diego Abatantuono nei panni di un personaggio realistico e convincente. Affiancato da tre giovani promesse del panorama cinematografico italiano –Matilde Gioli, Andrea Pisani e Francesco Di Raimondo– la storia di Belli di papà racconta di un padre e ricco imprenditore che si ritrova a gestire tre figli troppo viziati.
Cresciuti nella bambagia con la convinzione che tutto ruoti intorno agli agi, ai soldi e allo spreco, Chiara, Andrea e Matteo non hanno assoluta idea di cosa voglia dire lavorare né sono in grado di dare il giusto peso al valore dei soldi. Di fronte all’amara consapevolezza di non poter lasciare le redini della sua azienda a nessuno dei tre, Vincenzo decide di dare loro una lezione e finge un fallimento con l’aggravante della bancarotta fraudolenta.
Dopo aver raccontato ai tre figli di essere a rischio arresto, fugge con loro verso il sud per nascondersi in un posto sicuro. Il risultato della messinscena darà vita a un periodo di convivenza necessaria tra padre e figli che sarà preziosa opportunità per un confronto sincero, e persino doloroso, che fino ad allora era stato evitato.
Nell’attesa dell’arrivo in sala di Belli di papà, ecco 7 curiosità sul film.
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