Uno Per Tutti Recensione
Questa complicata premessa viene raccontata per piccoli indizi in una sequenza iniziale che è la più interessante del film: a poco a poco capiamo i collegamenti fra i vari personaggi e i rapporti di forza (e debolezza) che durano fra di loro da decenni. Ma la trama, basata sul romanzo Uno per tutti di Gaetano Savatteri, prosegue in forma sbocconcellata e via via sempre meno credibile, così come costruiti e innaturali appaiono i personaggi, con il risultato di sperperare il talento di attori solidi come Fabrizio Ferracane e Thomas Trabacchi nei ruoli di Gil e Saro. La recitazione di Isabella Ferrari (Eloisa) è addirittura straniante, complice un improbabile accento triestino e battute involontariamente comiche. Si salva solo Giorgio Panariello con il suo ruvido poliziotto Vinz.
I termini cinematografici di paragone sono chiaramente Anime nere (fin dalla locandina) per il legame fra tre uomini, al contempo una risorsa e una condanna, e Il capitale umano (ma anche I nostri ragazzi) per lo spunto narrativo del crimine commesso da un ragazzo della buona società e gli sforzi che i suoi genitori altoborghesi compiono per sottrarre il ragazzo alla giustizia. Ci sono persino citazioni da Arancia meccanica e da Il cacciatore, il che rende impietoso il confronto fra Uno per tutti e il grande cinema. Perché è il modo in cui la storia di Uno per tutti viene raccontata a renderlo problematico: inquadrature convenzionali, dialoghi che non si sollevano dalla pagina scritta (un esempio è il botta e risposta fra il diciottenne Teo e la ragazza che gli interessa. Teo: “Io sento di amarti”. Risposta: “Io non sento di essere capace di amare”), dinamiche comportamentali esibite ma mai veramente approfondite. Persino l’utilizzo della musica sembra scollato dal contesto che accompagna, come se il film fosse un assemblaggio di pezzi che non trovano mai la via di una narrazione coesa e coinvolgente.
Le intenzioni sono buone, e si capisce ciò che Uno per tutti avrebbe voluto essere, ma purtroppo non lo diventa mai, e purtroppo non diventa mai cinema.
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Uno per tutti: recensione del film di Mimmo Calopresti
Quanti secoli di storia del pensiero e della letteratura occidentale sono trascorsi da quando a Oreste toccò in sorte di pagare per gli errori commessi dal feroce padre Agamennone e ancor prima dal litigioso nonno Atreo? Innumerevoli.
Eppure, fra guerre, piaghe e rivoluzionarie scoperte scientifiche, il tema dell’ereditarietà della colpa – o comunque di un atto più o meno lecito di hybris – non ha mai smesso di esercitare il suo fascino sui narratori di storie, arrivando daEschilo fino alla prosa lucida e insieme poetica di Gaetano Savatteri, non a caso originario della Sicilia, un tempo parte della Magna Grecia.
In realtà è la sceneggiatura da lui scritta insieme Mimmo Calopresti (e non il libro che l’ha ispirata) a “estendere” le nefaste conseguenze del gesto inconsulto dell’imprenditore edile Gil a suo figlio Teo, che con minore coraggio, fierezza e senso dell’onore lega il proprio destino a un fatto di sangue. Tuttavia, la dialettica fra passato e presente e l’inevitabile impatto del primo sul secondo sono già ben presenti nel breve e bellissimo romanzo, che ripropone, mutuandolo da tanto cinema visto e appassionatamente ricordato, il leitmotiv della perdita dell’innocenza.
Il regista de La parola amore esiste quest’ultimo argomento sceglie di non privilegiarlo, in parte per questioni di costi e in parte perché, da investigatore della realtà qual è e da artista impegnato che si interroga sui disagi della nostra epoca, sembra interessato a sondare le conseguenze più che le cause, soffermandosi sulla malinconica mediocrità di tre uomini che, “nel mezzo del cammin di loro vita”, si ritrovano come “inchiodati”: chi alle proprie responsabilità lavorative, chi a una coazione a ripetere la parte dell’eroe, chi a una vita da cui si lascia vivere.
Vinz, Saro e Gil sono gli adulti di adesso, smarriti di fronte alla violenza di un mondo in cui le piccole bande di quartiere che giocavano a campana e lanciavano sassi nello stagno sono diventate gang stupide e pericolose che delinquono per noia. E’ la desolazione delle loro anime prosciugate di speranza che Caloprestivuole investigare, riflettendo contemporaneamente sul fallimento dei genitori di oggi che essi rappresentano, troppo indulgenti nei confronti dei figli e indifferenti alle loro ansie, preoccupazioni, incertezze.
Ora, se il disagio di questa generazione di cinquantenni lambita dal boom economico emerge con chiarezza, è soprattutto grazie alla solida bravura diThomas Trabacchi, Fabrizio Ferracane e di un inedito e sorprendente Giorgio Panariello, sbirro che non spara ma va alle riunioni sindacali. I loro personaggi, però, a un certo punto restano incastrati nei drammi interiori che vivono, contagiando con le loro impasse esistenziali anche il film, che rimane a metà fra un character- study e un noir e che si impantana in una parte centrale segnata dalla continua ed eccessiva alternanza di scene a due piene di dialoghi.
Non che Uno per tutti sia privo di ritmo. Anzi, scegliendo il digitale, Mimmo Calopresti gira un film veloce, ma quando la poesia irrompe sulla scena, nella sospensione di un paesaggio notturno triestino che fa da sfondo alla rievocazione dei gloriosi vecchi tempi da parte dei tre amici di lunga data, allora sì che il film acquista un giusto passo, magari più lento, però intenso e vibrante.
Vibranti erano le giornate sonnacchiose dei bambini raccontati da Savatteri, così come il sogno d’amore del piccolo Saro, invaghito di una bambina di nome Eloisache, nella trasposizione cinematografica, diventa ciò che nessuna donna vorrebbe mai diventare – una moglie infelice che si consola con il buddismo – e nessun personaggio di finzione dovrebbe mai essere: un cliché.
Cosa sarebbe stato Uno per tutti se un budget più consistente avesse permesso di ampliare il capitolo dedicato all’infanzia dei protagonisti? Probabilmente avrebbe riacquistato quell’equilibrio che gli viene pian piano a mancare. Non avrebbe avuto, tuttavia, il messaggio di speranza che Calopresti riesce efficacemente a trasmettere, avvertendoci che i nostri ragazzi, per quanto asserviti alla solitudine telematica e agli egocentrismi genitoriali, possono anche avere slanci inattesi e dimostrazioni di maturità.